10 luglio 1855 – Budapest, Impero Austro-Ungarico
Aveva detto che ci sarebbe stato tempo per parlare di tutto, il dottore. Giunti a casa Barbavara, mi accompagnò in stanza e ripetè la stessa frase: “Ci sarà tempo. Ora riposatevi”. Al risveglio, invece, era sparito.
Si era spacciato per il proprio assistente e aveva svuotato la camera d’albergo. Nessuna sua traccia in città, a parte la lettera che mi aveva lasciato sullo scrittoio, sotto la sciabola.
Poche parole: un commiato che da parte sua era quasi affettuoso; la ricetta del tonico che fino a quel momento aveva tenuto a bada la mutazione; il consiglio di berne un bicchierino al giorno, tre durante la luna piena; la rassicurazione che avrebbe riportato lui le notizie a Sebastoni. E una parola d’ordine, se mai si fosse ripresentato: il suo vero nome.
Dormii tutto il dì di Pasqua, guadagnandomi lo sdegno della governante. Il giorno dopo mi levai con fatica i punti dal collo. Gli squarci erano del tutto rimarginati, l’occhio sgonfiato, il braccio perfettamente funzionante.
Da Borgo Ticino già erano arrivate storie spaventose: un casa arsa nella notte con tutti gli occupanti, streghe, urla demoniache che terrorizzavano i contadini, apparizioni di strane creature ai viandanti nelle ore prima dell’alba. Smise tutto di colpo dopo soli tre giorni. Sebastoni doveva aver mandato qualcuno a chetare la situazione, forse Biscior stesso.
Del dottore non ebbi più notizia, nemmeno chiedendo a Sebastoni.
L’unica eccezione, forse, quel bigliettino di felicitazioni senza firma, giunto l’anno scorso in occasione del mio matrimonio. Rosa ne rimase inquietata: il fatto che fosse anonimo le sembrava un cattivo presagio, o forse un pessimo scherzo al mio indirizzo.
Sei anni.

Campo del 1° battaglione Bersaglieri, 1855-56. Disegno di Jane Bertie Mathew, moglie di Alfonso La Marmora
Poi, il 4 giugno scorso, a Kadikoi, in Crimea, il nuovo attendente, Valli, mi annunciò con la sua voce nasale la presenza di uno straniero: chiedeva udienza e portava una lettera di presentazione.
Testo in un italiano sconclusionato, scrittura sghemba, niente firma, maiuscole fuori posto a formare un nome noto: Quintus Bissi, Gerberti Meridianaeque filius.
Scivolai nei ricordi, me ne districò Valli, chiedendo cosa dovesse fare.
– Fatelo entrare.
Valli uscì dalla tenda, tornò poco dopo accompagnato da un uomo corpulento in giacca di panno verde e pantaloni neri, borsa di cuoio sdrucita a tracolla. Aveva i capelli neri, lunghi sulla nuca, occhi scuri dalle ciglia folte e baffetti arricciati. Al collo, nonostante il caldo, un fazzoletto porpora.
– Potete andare, Valli.
Rimanemmo a fronteggiarci, nel caldo soffocante della tenda da campo.
– Come devo chiamarvi?
Sorrise.
– Dottor Alexander Kandinskij, da San Pietroburgo – disse con accento russo.
Gl’indicai la sedia vicino all’entrata, mi accomodai sulla poltrona davanti allo scrittoio. Un bicchierino di porto ciascuno.
– E Stanislav, che fine ha fatto?
Sorrise di nuovo, sorseggiò il liquore. Era strano riaverlo davanti dopo tanto tempo, ma con un viso diverso ancora.
Perse l’accento nel dire:
– Stanislav è in pensione. Troppo noto. Viso nuovo, nome nuovo.
– Capisco. Come state?
– Io? Come state voi, piuttosto, amico mio? Siete voi quello che la Dea reclamava.
Tentennai, prima di raccontargli dei sogni. Gli spiegai che tutte le notti mi trovavo a vagare sulla piana innevata da cui la Dea era uscita, sotto quel cielo di piombo, diretto verso l’unico albero visibile per chilometri, spoglio e sbilenco. Gli dissi della certezza adamantina che Lei sarebbe stata là, sotto i rami secchi, ad attendermi, amorevole e infuriata, per amarmi e divorarmi. Gli spiegai della frustrazione di arrancare nella neve, di vedere altri loup-garou sfrecciarmi accanto, di sapere che loro, lupi fino in fondo, riuscivano a raggiungerla.
Tenni per me la delusione dello svegliarmi lontano dalla Dea e la frustrazione di arrancare sentendo gli ansiti d’estasi e morte degli amplessi dei miei fratelli con nostra madre. Sapevo, da sveglio e nel sonno, che Lei ancora mi desiderava e disprezzava.
Biscior si fece buio in viso.
– E il tonico?
– Ho la sensazione che perda in efficacia. Che la pelle mi si arricci sulla carne al plenilunio. Che i sogni, in quei giorni, si facciano più vividi.
Annuì: – Lo temevo.
Rimase silenzioso, meditabondo. Decisi di rompere gli indugi:
– A cosa devo la visita, dottore?
Si lisciò i baffi e iniziò a parlare, col piede che ondeggiava a ritmo con le parole. Se non fosse bastato il nome nella lettera, avrei avuto in quel momento la conferma di avere di fronte proprio Biscior.
– Svariati motivi. Io e Sebastoni riteniamo che Holthauser voglia creare una piccola legione di loup-garou, ma per indagare meglio potrebbe farci comodo il vostro aiuto. Soprattutto visto che mi confermate che il tonico non fa più effetto come prima.
– Sono impegnato, dottore. – indicai, oltre la tenda, il campo e i soldati che si preparano alla notte. – C’è una guerra, qui attorno, dovrebbe essersene accorto anche Sebastoni.
Una smorfia sarcastica.
– Se quello che credo è vero, tra poco avremo una nuova guerra, lungo il Ticino. E lì verranno schiarati i loup-garou.
Scossi il capo.
– Non posso abbandonare il campo di battaglia. Non con un’epidemia di colera che falcidia gli uomini.
Si alzò e prese a passeggiare per lo spazio ristretto della tenda. Accostata la lettera al lume ad olio, la guardai bruciare nel bacile zincato delle abluzioni.
– La prima mutazione è quella più terribile, dicono i garou.
Mi voltai. Parlava guardando a terra, rivoltando col piede il bordo di un tappeto.
– Non è per il dolore, – continuò, – ma perché avviene lontano dal plenilunio e ci si trova del tutto senza controllo. Come una piccola traversata di prova prima dell’inaugurazione di una nave, solo con più sangue.
– Volete spaventarmi? – se quello era il suo obiettivo, ci stava riuscendo.
– No, convincervi. Non ho idea di quanto a lungo ancora il tonico funzionerà, ma prima o poi muterete. Magari sul campo di battaglia. Magari a casa, mentre fate colazione con Rosa.
– Quindi cosa proponete? Che mi pianti una palla in testa.
– Sapete anche voi che non basterebbe. No, propongo di partire assieme. Di sfruttare il colera per fingere la vostra morte e farvi sparire, quindi andare in terra austrungarica, a vedere che cosa sta macchinando Holthauser e scombinargli i piani.
– Siete impazzito?
– Non direi. Se ci pensate, è l’unica soluzione possibile.
Si versò altro porto, lo sorbiva fingendo di studiare le pareti della tenda. Sapevo che mi stava dando tempo di decidere e sapevo anche che risposta s’aspettava.
– Ho deciso che non preferisco più l’ignoranza.
Mi guardò stupito. Mise giù il bicchiere per dedicarmi tutta la sua attenzione.
– Di che diavolo state parlando, generale?
– Cosa siete? Vorrei saperlo.
– Ah, quello! – sorrideva, ma evitava di guardarmi negli occhi. – Mai sentita la leggenda del golem, generale? Sono qualcosa di simile.
Era il mio turno di aggirarmi per la tenda. Avevo sentito parlare di golem, oggetti animati per difendere un luogo o delle persone. Suonava come una favoletta, ma anche i loup-garou erano una fiaba per fanciulli paurosa, solo sei anni prima.
Pensai a Rosa. Potevo sparire dalla sua vita, lasciarla vedova e benestante, dopo solo un anno assieme. Oppure potevo rimanere con lei, in salute e in malattia, fino alla morte, e rischiare di diventare una bestia assetata di sangue sotto i suoi occhi, farle del male senza volerlo. Non me lo sarei mai perdonato.
– Va bene, – dissi infine. – Non so se è l’unica soluzione possibile, come dite voi, ma le alternative… Facciamolo.
– Eccellente.
Mi porse una bottiglietta di vetro marrone presa dalla borsa.
– Bevetela tutta, anche se il sapore è disgustoso.
Giurerei che il catrame ha il sapore e la consistenza della porcheria che mi diede da bere. Tossii, disgustato, ma bevvi tutto, tenuto d’occhio dal dottore.
– Bene, voi non muovetevi di qui: tra poco inzierete a star male come poche altre volte in vita vostra.
– Non c’era altro modo, immagino.
– No. Ci servono i sintomi, perché la farsa sia creduta, ma entro un paio di giorni sarà tutto finito. Io tornerò tra poco, in veste professionale. Ora vado a controllare le condizioni del cadavere che vi sostituirà.
– Avevate già tutto pronto? – domandai. Una parte di me era stupita, la restante se l’aspettava.
Sorrise.
– Sebastoni non si sarebbe mai accontentato di un no, lo conoscete. E poi sono secoli che non ho un compagno di viaggio interessante come voi. Tenete il bacile a portata di mano, vi servirà!

Autoritratto di Vittorio La Marmora, 1859
Nella notte tra il 6 e il 7, morii, stroncato dal colera senza che né il medico russo né il medico da campo potessero fare alcunché. Ebbi il tempo di dare l’addio, vero e sentito, a Alfonso, Jane e Vittorio. Tra il cordoglio dei bersaglieri e dei famigliari presenti, il corpo di Alessandro Ferrero La Marmora venne tumulato in fretta, il caldo lo stava già decomponendo. Non avrei mai pensato di presenziare al mio funerale.
Io e Biscior partimmo il giorno stesso del funerale. Una settimana con una barba posticcia attaccata in faccia e il dottore a chiamarmi Carlo; il resto del viaggio rasato, come Sandro.
Un paio di giorni fa, giunti a Budapest e sicuri di non essere seguiti, Biscior mi ha condotto a un sottotetto affittato mesi prima. Da un barattolo pieno di liquido ha preso il volto del loup-garou coi capelli rossi, quello con cui era partito da Novara sei anni fa. Se l’è appiccicato in faccia, si fa chiamare Maximilian.
Ora siamo qui, Sandro e Maximilian, seduti in una bettola d’infimo ordine di Budapest, ad attendere d’incontrare dei loup-garou e a bere birra annacquata, sperando che stanotte non sia la notte della mia prima mutazione.
– Quanto ci vorrà ancora, prima che arrivino?
Biscior sorride, sussurra:
– E chi lo sa? È proprio questo, il bello della vita all’avventura, amico mio: poche certezze, molto straordinario!
FINE
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