L’economia della narrazione


Copertina Heavy RainRimaniamo in ambito videogiochi e in ambito narrazione, come settimana scorsa. Il gioco in questione è il meraviglioso Heavy Rain dei francesi Quantic Dream. La narrazione, beh, è superba, la messa in pratica di tutti i tipici consigli su come fare a creare un’esperienza narrativa coinvolgente e indimenticabile.

La trama è apparentemente semplice: in una città modellata su Philadelphia, un serial killer rapisce e uccide bambini affogandoli nell’acqua piovana, e li fa ritrovare con un origami in mano e un’orchidea sul petto. Quando il figlio di Ethan Mars viene rapito, il padre si imbarca nell’impresa di ritrovarlo, mentre altre persone (tra cui un investigatore privato, una giornalista e un agente FBI) danno per conto proprio la caccia all’Origami Killer, con l’orologio (e il pluviometro) che scandiscono la corsa contro la morte.

I creatori del gioco lo definiscono un “dramma interattivo” e davvero non c’è definizione migliore per la loro creatura.
Heavy Rain è quanto di più story-driven possa esistere, eppure ti tiene incollato allo schermo come un action game, ti pompa adrenalina nelle vene, ti fa accapponare la pelle, ti fa sentire davvero di avere nelle mani il destino dei personaggi. Non c’è quasi nulla di prestabilito, in questo gioco. Come nei migliori librogame, le tue decisioni definiscono l’evolversi della storia, la tua capacità o incapacità, la tua agitazione, i tuoi errori e le tue decisioni sofferte, tutto contribuisce a definire i possibili finali.
Per capirci: c’è un trofeo per aver visto tutti i finali del gioco (e ogni finale è composto da 4-5 segmenti), e per riuscire a ottenere il trofeo ci vogliono 7 tentativi ben concertati.

Ma il punto vero è che, a differenza del lavoro non eccelso (per non dire demmerda) di un AC3 che non sa dare pathos a nulla e non ti fa immedesimare con nulla, qui tutto è ben calibrato proprio per farti coinvolgere.
La sequenza iniziale del gioco, in cui il giocatore impara qual è la logica dietro i comandi, è un piccolo idillio assolato in cui toccare con mano quanto Ethan ami moglie e figli, quanto siano felici ma anche quanto tutto ciò sia fragile. Basta la morte del pappagallino Merlino per suggerire la tragedia incombente, il senso di impotenza di un padre di fronte a un fatto naturale.
Heavy Rain - Ethan e Grace MarsE quando Jason, il figlio maggiore, dieci anni appena compiuti, si perde al centro commerciale… Dio, l’angoscia! Perché già hai capito che qualcosa andrà male, malissimo.
Beh, va peggio: Jason finisce investito da un’auto, l’idillio si frantuma, Ethan finisce a vivere da solo in un appartamento triste e buio, col figlio con lui solo pochi giorni a settimana. E tu senti tutto, sia nelle parole che nei gesti che negli sguardi: i sensi di colpa che lo rodono e soprattutto un muro di dolore che lo separa dal piccolo Shaun.

I creatori si prendo il tempo necessario, prima del primo momento drammatico, per immergerti nella normalità di una famiglia felice, per farti sentire addosso il terrore di un uomo che ha smarrito il figlio, i rimpianti, l’instabilità, i dubbi.
Sono a tal punto consapevoli di quel che stanno facendo, ci hanno a tal punto pensato, da eliminare una sezione perché ridondante, perché convinti che il rapporto padre-figlio fosse espresso a sufficienza. E lo è, diamine se lo è.

Tu mentre ti dai da fare per infrangere il muro tra padre e figlio, sblam! Shaun sparisce mentre Ethan ha un’allucinazione.
E tu ti senti in colpa, perché impotente come Ethan.
Ancor di più quando alla stazione di polizia ti chiedono come era vestito il bambino e tu, giocatore, devi scegliere tra varie possibilità che si affastellano nella mente di Ethan e… no, proprio non ti ricordi, ma qualcosa devi rispondere, e…

Heavy Rain - dallo psicologoE via così, sempre: tu sei Ethan, sei Madison, sei Scott, sei Norman. Sei loro, indaghi con loro, hai i brividi con loro, con loro lotti, imprechi, cadi, ti rialzi, ti fai male, affronti prove inumane, interroghi la feccia della città, rischi la vita, muori. Finché stai giocando, non c’è alternativa all’immedesimazione.

Uno potrà dire: vabbeh, ma Assassin’s Creed 3 è un tipo di gioco diverso.
E sono d’accordissimo.
Ma.
Ma non è possibile che io in poche settimane mi trovi a giocare due cose separate da 2 anni d’età e a rendermi conto che mentre nella più vecchia c’è una potente consapevolezza di cosa serva a una narrazione per essere memorabile (non solo il momento cool, ma anche empatia per i protagonisti e condividerne le motivazioni base), nella più recente tutto sembra appoggiarsi sull’assunto che il giocatore si accontenti di “Mi hai insultato come un cane, hai dato fuoco al mio villaggio e incidentalmente mia madre è morta nell’incendio: prima o poi t’ammazzo”.
Ethan ha alle spalle una tragedia, sensi di colpa, dubbi pesanti, la sfiducia di quella che è ormai l’ex-moglie e la necessità di confermare a sè stesso che riuscirà a salvare Shaun, a qualunque costo. Sono moventi potenti e solidi.
Connor praticamente non ha nulla. E che finisca con l’ammazzare il proprio migliore amico in un momento, per citare The Gamers 2, “That’s cheap. Cheap, cheap, cheap!”, non aiuta.
Anche Ethan a un certo punto si troverà di fronte alla scelta se uccidere o meno un uomo. E sarà roso dai dubbi, creati da tutto quel che lui è e non è, ma anche dall’uomo che lo supplica di non ammazzarlo mentre gli mostra la foto delle figlie. È un momento in cui senti tutto il torcimento di budella che proveresti al posto suo. È una scelta sofferta quanto quella di Renato è un’azione meccanica.

Ecco, io spero di avere imparato qualcosina, da Heavy Rain.
Non dico chissà che, ma almeno quel senso di economia della narrazione che ti lascia addosso la sensazione che tutto o quasi sia dove doveva essere, e che quello che sembra lievemente fuori posto, beh, sia solo un’inezia trascurabile, un minimo difetto che esalta la scorrevolezza del resto.

3 commenti su “L’economia della narrazione

  1. Pingback: Lotta alle stronzate in sei fasi | Space of entropy

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